domenica 29 settembre 2013

"QUANDO ALLENARE GIOCATORI E' ANCHE FORMARE UOMINI"
PAROLE E MUSICA DI COACH ANDREA CAPOBIANCO


Ho trovato questa bella intervista fatta da Chiara Turrini ad Andrea Capobianco pubblicata sul sito www.basketlive.it che vorrei condividere con tutti quelli che ritengono necessario e importante sapere che dietro dei giocatori ci sono dei ragazzi, dietro degli atleti ci sono delle persone che dietro uno sportivo c'è un uomo, con le sue fragilità, i suoi errori, i suoi talenti e le sue potenzialità.


A teatro, quando cala il sipario la gente applaude. È normale che non pensi al dietro le quinte, alla frenesia di chi lavora oltre le strisce di stoffa che separano la scena e quello che sta dietro. Dietro le quinte è fatica degli addetti ai lavori e degli attori che imparano la parte, è il progetto dello spettacolo che prende forma secondo il copione. Gli spettatori non lo vedono ma gli attori lo vivono. E il regista lo sa.

 In questo caso il regista è Andrea Capobianco, responsabile tecnico del Cna e del Settore Squadre Nazionali Maschili, attualmente coach degli Azzurri Under 18. Andrea, in questo periodo impegnato con i ritiri estivi, dirige con passione i lavori del dietro le quinte, perchè “la progettazione è un punto chiave di tutto il lavoro che svolgiamo e che abbiamo svolto, ad esempio con la Nazionale Sperimentale”.

L'intenso mese di giugno con la Nazionale Sperimentale ha portato i frutti sperati: Daniele Magro e Massimo Chessa sono stati convocati con Nazionale A. “Dalle recenti convocazioni si vede la buona riuscita di questo nostro lavoro – spiega il coach – una progettazione sul lungo periodo ma che sta andando nella direzione giusta”.

“Il nostro obiettivo – sottolinea – non era il risultato di una partita, che pure è arrivato, soprattutto contro la Francia. Siamo stati chiari fin da subito: è un progetto a lungo termine, ma da cui abbiamo avuto una grandissima soddisfazione. Il lavoro non era solo fisico, ma anche mentale, di motivazione. Alla fine è stato bello vedere come tutti si sono impegnati per andare oltre il limite, al di là della stanchezza. È questo che li porta a fare dei passi avanti”.

Filosofia cestistica
"Alla base di questo sport che non è solo uno sport ci sono i valori. – evidenzia il coach – E lo sport per la società può fare molto. Ad esempio un passaggio non è un gesto del braccio verso un compagno. È un atto che ci porta a rinunciare alla possibilità di prenderci gli applausi per illuminare il palco di un nostro compagno. Ai bambini del minibasket bisogna dire bravi se passano la palla più che se tirano, perchè solo così si può comprendere che una squadra è unita per un bene comune”.

Patti chiari, amicizia lunga
Formare ventenni, gestire adulti. Coach Capobianco ha allenato tutte le categorie, dal minibasket alla Nazionale (nel curriculum manca solo l'A dilettanti), e per questo gira l'Italia, perchè “ per capire le cose bisogna guardarle a 360°”. Dice di non credere in regole prestabilite riguardo il suo mestiere. “Allenare vuol dire avere a che fare prima di tutto con persone, e quindi gestire relazioni interpersonali. Poi la questione è: io allenatore e tu giocatore, insieme, cosa possiamo fare? Dove possiamo arrivare?” Alla base di questo rapporto di fiducia devono esserci chiarezza, coerenza e tolleranza.
La chiarezza è il valore alla base della comunicazione. Per cui un giocatore deve essere lasciato libero di scegliere, capace di assumersi la responsabilità di intraprendere la via che premia, quella della fatica: “Assolutamente, dobbiamo lasciarli scegliere, far sì che si assumano questa responsabilità quando noi diciamo loro chiaramente che il sacrificio e lo sforzo sono l'unica via per diventare forti”.
La coerenza è quello che dà credibilità alla persona. “Io penso che tutti i giocatori meritino, e debbano essere allenati per arrivare al loro massimo, sia che ciò voglia dire renderli supercampioni, sia giocatori tutto sommato mediocri. Tutti hanno la loro dignità non solo come giocatori ma in quanto persone. La coerenza è anche quel valore per cui io stesso devo dare sempre il massimo, per essere d'esempio ai ragazzi. Cerco sempre di portare me stesso in palestra”.
La tolleranza è quello che sta alla base dei rapporti: per cui in certi casi fare un passo indietro è farne uno in avanti, perchè vuol dire accettare la diversità dell'Altro senza per questo respingerla.
“Da qui nasce la consapevolezza, che è quello che dobbiamo insegnare a ogni singolo giocatore, e dobbiamo farlo per ogni singolo esercizio - spiega Andrea, che però si schernisce: “Detto questo, nessuno è infallibile e gli errori purtroppo capitano”.

“Allenare un giocatore, soprattutto se giovane, - continua – non vuol dire accontentarlo, ma prendersi cura della sua persona, aiutarlo a crescere. Vuol dire guardare specialmente alle cose che non vanno bene, lavorare sui limiti. È questo il dovere di un coach, e allenare vuol dire prendersi il proprio ruolo. Con chiarezza, coerenza e tolleranza”.

Beata gioventù
Coach C ha visto passare dalle sue palestre generazioni di giocatori. Passano gli anni, cambiano i tempi. Che differenza c'è oggi con quando ha iniziato? “Le differenze tra generazioni ci sono, come è normale ci siano. Ma non è vero il luogo comune 'non ci sono più i ragazzi di una volta'. O meglio, certo, i giovani sono cambiati, ma non sono peggiorati. È cambiato il modo in cui manifestano i valori, ed è forse più difficile tirar fuori il cuore. Ma c'è, c'è ancora, si gioca ancora nei campetti all'aperto, la passione esiste, va tirata fuori”.
Qual è la problematica più difficile quando si tratta di lavorare coi giovani? “Oggi si dice che i ragazzi sono superficiali. Io non la penso assolutamente così, anzi. Ma devono essere meno diffidenti, devono credere in chi vuole aiutarli a crescere. Hanno dentro le cose, ma non è facile fargliele tirare fuori. Penso che debbano avere il coraggio di essere profondi, e quando lo fanno capitano cose bellissime, piccole cose: ragazzi che vanno via poi tornano a salutare, che ringraziano di averli corretti severamente...Perchè siamo allenatori, ma anche, pur nel nostro ruolo, punti di riferimento importanti per la loro vita”.

La giusta distanza
Allenare è una vocazione? Andrea Capobianco aveva iniziato l'università, Facoltà di Medicina. Esami regolari fino al terzo anno poi la scelta: voglio allenare. I genitori, lei preside, lui avvocato, superato il pallore iniziale lo lasciano assumersi la responsabilità della scelta.
Oggi Andrea paragona la sua attività di allenatore a quella di un insegnante: “In un certo senso sì, una vocazione, ma più che altro è un ruolo che deve restare entro certi confini”. La famiglia dei giocatori, ad esempio. Spesso i ragazzi stanno più tempo col coach che a casa, si creano legami. Andrea non è sposato e non ha figli, ma sarebbe sbagliato usare la metafora dell'allenatore anche un po' padre. Ognuno ha il proprio ruolo. “Su questo tema, mi piace ricordare uno dei giocatori che conosco meglio e a cui sono molto legato, Giuseppe Poeta. Lui deve molto alla sua famiglia, che io conosco da anni, perchè l'ha aiutato in ogni momento senza mai rubare il ruolo all'allenatore. Credo nella pallacanestro e nell'educazione fatte di collaborazioni, e allenatore e genitori devono guardare sempre alla crescita del ragazzo. Quando non accade questo, ognuno deve stare al suo posto”. Le è capitato di affrontare situazioni in cui i ruoli erano confusi? “Certo. E quando non ero più solo allenatore ma qualcosa di simile a un padre ho dovuto mettere una distanza, erigere muri per proteggere i rapporti tra le persone”.

Panta rei
“Poi c'è il tempo – aggiunge Andrea – un fattore troppo importante. È il tempo che ci fa capire realmente come sono andate le cose, chiarisce tutto”. L'esempio è inequivocabile: “Come durante una partita, pianifichi di vincere dopo una strategia di pressing sui 40'. All'inizio prendi dei canestri, prendi un parziale, ma ci sta. Perchè alla fine gli avversari sono stanchi e tu vinci grazie al tuo progetto iniziale. Il tempo è la verifica. Io credo molto nei miracoli, ma noi non possiamo farne. Possiamo però credere nelle nostre idee e portarle avanti con coraggio, prendendoci la responsabilità di scelte 'fuori moda' perchè siamo sereni e saldi nelle nostre intenzioni”.

Solo cose belle
Questo è il capitolo “soddisfazioni”. “La serenità non te la dà una vittoria né te la toglie una sconfitta. Mi è servito tutto quello che ho vissuto coi ragazzi, nel bene e nel male. E poi, quando li vedi a certi livelli...ripaga degli sforzi fatti”. Certo, Capobianco ha vinto molti premi di squadra e come miglior allenatore, ma dice che quelle soddisfazioni non sono niente se confrontate con i piccoli gesti di umanità nel quotidiano della professione. “La più grande? Forse quando Giuseppe Poeta, Luca Infante e Valerio Amoroso, tutti e tre cresciuti con me, vestirono insieme la maglia della Nazionale...”.
O quando a vestirla è proprio il coach: “Un'enorme soddisfazione per me è poter indossare i colori della Nazionale, è sempre stato il mio sogno. Mi vengono i brividi ogni volta che indosso quella maglia. Certo, sono stato contento delle offerte da parte di alcuni club, ma per me l'onore più grande è questo”.