martedì 30 marzo 2010

GIANNI ASTI UNA VITA PER LA PALLACANESTRO
ECCO L'INTERVISTA PUBBLICATA SU VARESE SPORT


Gianni Asti mi parla con voce rotta dall’emozione
e, lo capisco, è commosso.
Per uno dei grandi uomini della pallacanestro
italiana aver ricevuto la “nomination” per entrare
nella “Hall of Fame” rappresenta il coronamento
di una vita tutta dedicata al basket.
Una bellissima vita, mi sento di aggiungere.
Per me Asti è semplicemente il “Professore”,
un appellativo col quale mi sono sempre rivolto
a Gianni, dandogli rigorosamente del
“Lei”, come si usa quando vuoi significare deferenza,
rispetto oltre che un’infinita ammirazione.
Le due cose -Professore e il lei-, messe
insieme, lo hanno sempre bonariamente indispettito.
Come giusto per un personaggio che
di umiltà e di un costante atteggiamento sottotraccia
ha fatto le sue regole. Nella vita come
nel basket che poi, come mi è già capitato di
scrivere in diverse occasioni, per tanti di noi è
la stessa cosa. Figuratevi per uno come Asti
che, 75 anni tra pochi giorni, nel mondo della
pallacanestro ha trascorso gran parte dei suoi
giorni.
“Ho iniziato con la palla al cesto, allora si
chiamava così, a 13 anni nel 1948. Un avvio
– ricorda Asti -, più che fortunato perché il
mio primo insegnante fu nientemeno che il
professor Tracuzzi, allora allenatore della
Pallacanestro Varese e professore di educazione
fisica nelle scuole varesine. Dalle scuole
medie al settore giovanile della Pallacanestro
Varese il passo fu brevissimo e siccome
non ero affatto male, fu breve anche il passo
in prima squadra con il professor Tracuzzi
che, coraggioso e un po’ “scriteriato” mi fece
addirittura esordire in prima squadra, a Bologna
contro la Virtus Minganti del “mitico”
Calebotta, il primo due metri del basket italiano.
Nel 1955, esaurita la trafila delle giovanili,
ed uscito di scena Tracuzzi che aveva
per me stima e affetto particolari, passai alla
Robur et Fides per aprire il vero libro cestistico
della mia vita”.

Da allora, 55 anni consecutivi di grande
inesauribile “amore roburino”…

“Proprio così perché – continua Gianni -, in
via Marzorati ho ricoperto tutti i ruoli – giocatore,
allenatore e dirigente -, e sui vari legni
roburini ha trascorso le ore più belle,
emozionanti, intense e partecipate della vicenda
cestistica e umana. Rivedo come se fosse
oggi gli anni del primo “boom” quando
con Diego Roga allenatore ed un quintetto
con Luigi Ossola, il sottoscritto, Tozzini, Baroni
e Vaccaro, vincemmo cinque campionati
di fila passando dalla Promozione alla serie
A, disputata con il marchio Prealpi nel 1963-
‘64. Un record che, se non vado errato, è tuttora
imbattuto in ambito nazionale. Intanto,
parallelamente all’attività di giocatore avevo
preso il via, proficuamente, quella di allenatore”.

Da quello che mi ricordo, il suo, è stato come
si suol dire un “bel cominciare”

“Beh, non posso negare che non capita tutti i
giorni di trovarsi fra le mani una nidiata di
ragazzi fantastici come Aldo Ossola, Dodo
Rusconi, Antonio Rodà, i fratelli Gergati.
Gente dotata di talento, mentalità, incredibile
motivazione a lavorare in palestra e migliorarsi,
volontà, entusiasmo. Qualità che poi
permisero loroo di arrivare in serie A e giocarsela
da protagonisti assoluti per tantissimi
anni. Con i vari gruppi, nel 1963, ’64 e ’65,
vincemmo tre titoli nazionali giovanili”.

Un settore giovanile che produceva campioni
su scala industriale…

“In effetti, dopo questa leva, arrivò quella dei
Rodà, Beppe Gergati, Veronesi, Guidali e
compagnia e su questa solida base, con il sottoscritto
come allenatore, costruimmo anche
parte della squadra che conquistò la serie A nel
1972”.

Con il mitico spareggio per la serie A, giocato,
se non ricordo male, a Bologna…

“Proprio così: vincemmo lo spareggio contro
Siena, con la prima transumanza del popolo
roburino che raggiunse in massa il PalaDozza.
Ricordo l’entusiasmo di oltre 2000 nostri
tifosi ed il viaggio negli Stati Uniti per scegliere
l’americano.
Puntai ad occhi chiusi su Terry Benton, splendido
atleta, saltatore, rimbalzista, dotato di
una verticalità, perfetto per il
nostro gioco, velocità e contropiede
che, per essere innescato,
aveva bisogno di un giocatore
del genere. Purtroppo, per la serie
non tutte le ciambelle non
vengono col buco, dopo un buon
inizio Benton si ruppe il tendine
d’Achille e noi precipitammo
perché allora non era possibile
sostituire gli stranieri.
Tuttavia, il finale di stagione
pur nella sua amarezza aprì le
porte allo splendido futuro della
Robur et Fides perché l’Ingegner
Maumary, allora presidente
della Pallacanestro Milano, si
innamorò dei nostri giocatori e
dopo una lunga trattativa, quel
genio assoluto di Dante Trombetta
anziché farsi pagare in
soldoni, raggiunse un accordo
storico: i giocatori avrebbero
preso la via di Milano in cambio
della costruzione del Centro
Sportivo di via Marzorati, quella
che orgogliosamente, da quasi
quarant’anni, è la nostra casa
e diventa ogni giorno più bello”.

Quell’amara e sfortunata retrocessione
non le chiuse le porte della serie A. Anzi, altro
giro, altro spareggio vinto: questa volta,
da coach a Vigevano, contro Cagliari
“Restai in Robur per altre stagioni, spese in
serie B, per trasferirmi, nel 1977-78 a Vigevano
alla guida di una squadra fantastica composta
da campioni come Malagoli, Jellini,
Crippa, Solman e Clyde Mayes che, colpo di
fortuna, arrivò da noi per caso, dopo essere
stato provato e scartato da Udine, mentre noi
aspettavamo tale Hard che, però, non si decideva
mai a salire sull’areo. Stanco di questo
tiramolla decisi di dare un’occhiata a questo
Mayes, che si rivelò giocatore buonissimo, oltre
che un uomo religioso, con principi morali
ben saldi e grande disponibilità verso tutti:
compagni e società. Vincemmo il campionato
giocando molto bene, ma l’anno successivo,
dopo qualche mese, mollai l’incarico a Rich
Percudani, passando nel ruolo di direttore
sportivo perché non avevo nessuna di lasciare
il mio impiego, prestigioso e di responsabilità,
alla filiale VolksWagen di Milano. E, proprio
a Milano, sulla panchina del Banco Ambrosiano,
squadra femminile di serie A2 con
giocatrici bravissime come Guzzonato, Teoldi,
Brena, chiudo la mia carriera come allenatore”.

Da quel momento in poi lei diventa ufficialmente,
e per tutti, il Professore, il Maestro
dei fondamentali…

“In realtà sono rimasto fuori dal
basket attivo per qualche anno,
poi, nel 1987, il richiamo di
“mamma Robur” si fa fortissimo.
Da allora ho avuto la fortuna
di vedere migliaia tra partite
e allenamenti ed il mio ruolo è
quello che hai descritto: insegnante
di fondamentali. Ho la
fortuna di avere a che fare con
allenatori bravi, preparati e
umili che, ogni volta, dimostrano
grande disponibilità nell’ascoltare
i consigli, nell’accettare
i miei suggerimenti che, ripeto,
si rivolgono solo ed esclusivamente
ai fondamentali del gioco
che sono la mia vera passione”.

Dove sta andando il basket di
oggi?

“Non sono in grado di dare una
risposta e non ho nemmeno la
presunzione di farlo per un argomento
così vasto e importante
nei suoi mille aspetti. Posso solo
guardare dentro il mio orticello
roburino e dire che, in Robur et
Fides, facciamo in modo, col lavoro di tutti i
giorni, che la pallacanestro sia sempre un po’
più uguale a quella di tanti anni fa. Quindi, rispetto
dell’individuo, massima cura per la sua
crescita tecnica e psicologica e attenzione per
il risultato molto, molto subordinata alle prime
due istanze. Abbiamo 14 squadre che, sotto
varie denominazioni, portano avanti un’attività
incredibile per qualità e quantità. Abbiamo
una prima squadra che, esempio unico
in tutta la serie B2, ha quasi tutti giocatori
fatti in casa. Abbiamo, ed è l’elemento che
conta di più, una società solida, serie, formata
da persone appassionate, ma soprattutto
competenti, che conoscono il basket ed i valori,
tutti, applicabili allo sport. Insomma, il futuro
per un sodalizio come il nostro, che getta
un ponte tra tradizione e modernità, è sempre
roseo ed io sono davvero onorato di farne
parte e di poter dare il mio piccolo contributo
ad un gruppo di allenatori guidato magnificamente
da Alberto Zambelli, coach di grandi
capacità e uomo squisito”.

Non tanto piccolo se ha ricevuto la “nomination”
per l’Arca della Gloria…

“Sono grato al mondo della pallacanestro
che, ancora una volta, si è ricordato di me. Lo
ha già fatto in due occasioni nominandomi Allenatore
Benemerito e donandomi la Stella al
Merito Sportivo del CONI. Questa nomination,
sotto il profilo ufficiale, rappresenta l’apoteosi
della mia carriera, ma il mio zenith è
sempre e solo uno: poter stare tutti giorni in
palestra e veder crescere i miei ragazzi. Alcuni
dei quali, tra l’altro, bravissimi medici, in
un periodo delicato per la salute, mi salvarono
la vita. Mi riferisco a Diego Ornaghi, cardiochirurgo,
Sergio Segato, primario gastroenterologo,
Giorgio Lepori, cardiologo e
Carlo Nicora, direttore dell’Ospedale Niguarda.
Loro si sono fatti in quattro e, come si
usa dire, mi hanno tirato fuori per i capelli da
una situazione complicata. Accanto a loro,
per altre ragioni, mi piace e voglio ricordare
la figura di Gianni Chiapparo, un uomo con
una dirittura morale come pochi ne ho visto.
Sul suoi conto mi limito a dire che Gianni non
è stato fortunato e non ha ricevuto secondo i
suoi meriti. Un vero peccato…”.

domenica 28 marzo 2010

"LA VITA E' UN INSIEME DI LUOGHI E DI PERSONE CHE SCRIVONO IL NOSTRO TEMPO"



La vita è un insieme di luoghi e di persone che scrivono il nostro tempo.

Noi cresciamo e maturiamo collezionando queste esperienze. Sono queste che poi vanno a definirci. Alcune sono più importanti di altre perché formano il nostro carattere. Ci insegnano la differenza tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, la differenza tra il bene e il male. Cosa essere e cosa non essere. Ci insegnano chi vogliamo diventare.

In tutto questo alcune persone, alcune cose si legano a noi in modo spontaneo e inestricabile. Ci sostengono nell’esprimerci e nel realizzarci. Ci legittimano nell’ essere autentici e veri. E se significano veramente qualcosa, ispirano il modo in cui il mondo cambia e si evolve. E allora appartengono a tutti noi e a nessuno.